EPUB GRATUITO: Gabriele D’Annunzio, L’Armata d’Italia (1888)
Gabriele D’Annunzio
L’armata d’Italia
(1888)
Scritti di lotta e disobbedienza
a cura di Gianni Ferracuti
L’Armata d’Italia è un delizioso pamphlet che Gabriele D’Annunzio pubblica nel 1888 per denunciare le condizioni critiche della Marina militare del Regno. Il tema potrebbe sembrare datato, ma in realtà esistono diversi motivi di interesse per il lettore odierno, oltre ai pregi stilistici della scrittura dannunziana, primo tra tutti constatare che la pubblica Amministrazione non si è mai liberata dei mali che vi sono denunciati: nepotismo, raccomandazioni, burocrazia labirintica e irrazionale, costante estromissione del merito a tutto vantaggio di una inefficienza pusillanime e altri difetti che sembrano congeniti al governo del Paese, forse perché la sua unificazione era avvenuta nel peggiore dei modi.
Mi ha colpito che D’Annunzio rivendichi il suo diritto a occuparsi di temi che non rientrano nell’immagine del poeta estetizzante e chiuso in un’astratta sfera lirica; scrive infatti:
Io non sono e non voglio essere un poeta mero. Al perfetto rimatore Théodorè de Banville piacque confessare, nel ritornello d’una delle sue trentasei ballate mirabili; “Je ne m’entends qu’à la métrique!” A me, invece, codesta perpetua profession di prosodista non va. Tutte le manifestazioni della vita e tutte le manifestazioni dell’intelligenza mi attrangono egualmente. E credo d’aver pienissima libertà di portare il mio studio e la mia ricerca in ogni campo, a patto che il mio studio sia conscienzioso e la mia ricerca sia giusta.
Basterebbe già questa citazione per mettere in crisi l’immagine scolare del poeta, attardata su luoghi comuni, attenta ad eliminare tutto ciò che nella sua opera è robusta affermazione di vita e di spirito rivoluzionario e libertario, in una sorta di reductio ad insipidum che coinvolge anche Carducci, Pascoli e quasi tutti gli spiriti ribelli della nostra letteratura che si discostino dalla retorica risorgimentale. «Io, con criteri precisi e con una precisa cognizione dei fatti, mi sono occupato delle persone. Ed ho compiuto il mio studio direttamente, senza divagare», dice D’Annunzio – e in fondo è ciò che fa costantemente.
A parte questo, vi sono anche temi che saranno meglio sviluppati nelle opere posteriori, ma che mostrano una capacità di lettura del nuovo mondo contemporaneo molto acuta e anticipatrice. Per esempio, un rapporto nuovo tra l’operatore e la tecnica, che conduce a nuove forme di lavoro in una unità collettiva che integra uomini e macchine: parlando di cose militari, tale unità implica una concezione del combattimento, e in particolare dell’atto eroico, molto diversa da quella romantica, che esalta l’eroe con toni tratti dalla retorica classicista. Nel testo di D’Annunzio la figura del guerriero è già assorbita dalla figura dell’operatore – e uso questo termine come una chiara allusione all’Arbeiter di Jünger, che è piuttosto posteriore: «A condizioni pari, dunque, le maggiori probabilità di vittoria sono per quella nave il cui equipaggio, compiendo esattamente i suoi varii offici, più si avvicina, come io diceva, alla precision d’una macchina». L’azi0ne collettiva dell’equipaggio richiama la macchina e, al tempo stesso, costituisce con essa una struttura unitaria.
La capacità di operare come collettivo non annulla l’individualità, non è pertanto una spersonalizzazione, bensì è il prodotto di una disciplina. Forse sarebbe meglio usare il termine formazione, piuttosto che disciplina, affinché appaia più chiara l’anticipazione di Jünger. «In ognuno dei nostri uomini è, latente, lo spirito di un eroe», scrive D’Annunzio, ma si tratta di un eroismo nuovo, dato che aggiunge subito: «Oggi, più che di marinai militari noi abbiamo bisogno di buoni operai militari»: la figura dell’operaio viene estesa penetrando in campi dove precedentemente regnavano tipi umani o figure ben diverse.
Nel richiamare la figura dell’operaio D’Annunzio l’ha già reinterpretata in una forma abbastanza vicina a quella di Jünger, che ne fa una Gestalt, e così si comprende che possa attribuire ad essa delle qualità etiche forse non richieste nel semplice lavoro in una fabbrica qualunque:
Il coraggio dei marinai torpedinieri, in faccia al pericolo, dovrà essere gelido; la chiarezza del loro intelletto dovrà essere immutabile; l’azione delle loro membra dovrà esser regolare come quella di un istrumento esatto.
S’avvicineranno essi alla gran nave nemica sotto la grandine incessante delle mitragliatrici e dei cannoni a tiro continuo, capaci di dare più che seicento colpi al minuto con incredibile sicurezza. S’avvicineranno a quattrocento metri; a men di quattrocento, se sarà possibile. Lanceranno il primo siluro; lanceranno il secondo. E nessuna gioia umana eguaglierà la loro, se potran vedere la mostruosa corazzata nemica inclinarsi in sul fianco, volgere al cielo le inutili bocche de’ suoi cannoni da cento, e rapidamente scomparire, con le sue torri e con le sue batterie, in un gorgo smisurato.
Sono anime d’acciaio integrate con l’acciaio dell’arma bellica in una guerra di uomini, macchine e materiali, in una visione che anticipa quella futurista.
Come si diceva, questo nuovo tipo umano è il risultato di una formazione, non di una disciplina consistente in ottusa applicazione di regolamenti. È comprensibile che in ambito militare non si possa prescindere dal rispetto delle regole e dall’obbedienza, ma questo è un ingrediente di un’azione formativa più complessa: se ci si limita al meccanismo trasgressione-punizione, in una struttura gerarchica poco intelligente succederà che chi occupa posizioni elevate tenderà a scaricare colpe o frustrazioni sul sottoposto e, in una «degenerazione», «chi ha ricevuta una umiliazione cerca, quasi per rappresaglia, d’infliggerla ad altri. E cosi la disciplina non è più fondata su l’inalzamento morale del più degno ma sull’abbassamento dell’altrui dignità». Diversamente, la disciplina dovrebbe essere fondata su saggezza, fermezza, ragionevolezza, e avere come scopo la conservazione della concordia nell’unità militare.
Questi temi saranno ampiamente sviluppati da D’Annunzio nei suoi successivi scritti di lotta e disobbedienza e determineranno la definizione delle due figure complementari del fante e dell’eroe: un fante contadino e proletario, scriverà D’Annunzio, che è anonimo non perché non sia persona, ma perché è un comune cittadino del Regno, nato non per frequentare una scuola di guerra bensì per essere appunto proletario e contadino. Eppure questo fante sarà determinante per la vittoria, così come lo stesso fante, quando capita di conoscerne il nome, sarà l’eroe che viene portato come esempio ai combattenti: il prototipo è, per D’Annunzio, Giovanni Randaccio, perfetto sconosciuto ai più, fante che cessa di essere anonimo solo perché lo si è avuto accanto nell’azione militare. Il milite ignoto, l’eroe proletario e contadino, l’ardito – forse il miglior corpo d’assalto della prima guerra mondiale – sono popolo, ovvero al tempo stesso persone e parti di un ente collettivo, un ente che cresce per cerchi concentrici: l’unità di combattimento, il battaglione, l’esercito… la nazione, che proprio nel finire del secolo XIX Enrico Corradini ripensa appunto come soggetto collettivo, depurandola da ogni tratto di retorica romantica e patriottismo funzionale agli interessi della classe borghese.
Il contributo di D’Annunzio al pensiero politico e alla visione del mondo contemporaneo è di straordinaria importanza e, per molti aspetti, di grandissima attualità – e non si trattò solo di un contributo teorico: D’Annunzio e i suoi legionari realizzarono a Fiume una rivoluzione socialista e libertaria per stroncare la quale furono necessari i cannoni della Marina di Giolitti e il voltafaccia di Mussolini, desideroso di eliminare il maggior ostacolo per la sua ascesa al potere.
G.F.
Gabriele D’Annunzio
L’armata d’Italia
(1888)
Scritti di lotta e disobbedienza
a cura di Gianni Ferracuti
L’Armata d’Italia è un delizioso pamphlet che Gabriele D’Annunzio pubblica nel 1888 per denunciare le condizioni critiche della Marina militare del Regno. Il tema potrebbe sembrare datato, ma in realtà esistono diversi motivi di interesse per il lettore odierno, oltre ai pregi stilistici della scrittura dannunziana, primo tra tutti constatare che la pubblica Amministrazione non si è mai liberata dei mali che vi sono denunciati: nepotismo, raccomandazioni, burocrazia labirintica e irrazionale, costante estromissione del merito a tutto vantaggio di una inefficienza pusillanime e altri difetti che sembrano congeniti al governo del Paese, forse perché la sua unificazione era avvenuta nel peggiore dei modi.
Mi ha colpito che D’Annunzio rivendichi il suo diritto a occuparsi di temi che non rientrano nell’immagine del poeta estetizzante e chiuso in un’astratta sfera lirica; scrive infatti:
Io non sono e non voglio essere un poeta mero. Al perfetto rimatore Théodorè de Banville piacque confessare, nel ritornello d’una delle sue trentasei ballate mirabili; “Je ne m’entends qu’à la métrique!” A me, invece, codesta perpetua profession di prosodista non va. Tutte le manifestazioni della vita e tutte le manifestazioni dell’intelligenza mi attrangono egualmente. E credo d’aver pienissima libertà di portare il mio studio e la mia ricerca in ogni campo, a patto che il mio studio sia conscienzioso e la mia ricerca sia giusta.
Basterebbe già questa citazione per mettere in crisi l’immagine scolare del poeta, attardata su luoghi comuni, attenta ad eliminare tutto ciò che nella sua opera è robusta affermazione di vita e di spirito rivoluzionario e libertario, in una sorta di reductio ad insipidum che coinvolge anche Carducci, Pascoli e quasi tutti gli spiriti ribelli della nostra letteratura che si discostino dalla retorica risorgimentale. «Io, con criteri precisi e con una precisa cognizione dei fatti, mi sono occupato delle persone. Ed ho compiuto il mio studio direttamente, senza divagare», dice D’Annunzio – e in fondo è ciò che fa costantemente.
A parte questo, vi sono anche temi che saranno meglio sviluppati nelle opere posteriori, ma che mostrano una capacità di lettura del nuovo mondo contemporaneo molto acuta e anticipatrice. Per esempio, un rapporto nuovo tra l’operatore e la tecnica, che conduce a nuove forme di lavoro in una unità collettiva che integra uomini e macchine: parlando di cose militari, tale unità implica una concezione del combattimento, e in particolare dell’atto eroico, molto diversa da quella romantica, che esalta l’eroe con toni tratti dalla retorica classicista. Nel testo di D’Annunzio la figura del guerriero è già assorbita dalla figura dell’operatore – e uso questo termine come una chiara allusione all’Arbeiter di Jünger, che è piuttosto posteriore: «A condizioni pari, dunque, le maggiori probabilità di vittoria sono per quella nave il cui equipaggio, compiendo esattamente i suoi varii offici, più si avvicina, come io diceva, alla precision d’una macchina». L’azi0ne collettiva dell’equipaggio richiama la macchina e, al tempo stesso, costituisce con essa una struttura unitaria.
La capacità di operare come collettivo non annulla l’individualità, non è pertanto una spersonalizzazione, bensì è il prodotto di una disciplina. Forse sarebbe meglio usare il termine formazione, piuttosto che disciplina, affinché appaia più chiara l’anticipazione di Jünger. «In ognuno dei nostri uomini è, latente, lo spirito di un eroe», scrive D’Annunzio, ma si tratta di un eroismo nuovo, dato che aggiunge subito: «Oggi, più che di marinai militari noi abbiamo bisogno di buoni operai militari»: la figura dell’operaio viene estesa penetrando in campi dove precedentemente regnavano tipi umani o figure ben diverse.
Nel richiamare la figura dell’operaio D’Annunzio l’ha già reinterpretata in una forma abbastanza vicina a quella di Jünger, che ne fa una Gestalt, e così si comprende che possa attribuire ad essa delle qualità etiche forse non richieste nel semplice lavoro in una fabbrica qualunque:
Il coraggio dei marinai torpedinieri, in faccia al pericolo, dovrà essere gelido; la chiarezza del loro intelletto dovrà essere immutabile; l’azione delle loro membra dovrà esser regolare come quella di un istrumento esatto.
S’avvicineranno essi alla gran nave nemica sotto la grandine incessante delle mitragliatrici e dei cannoni a tiro continuo, capaci di dare più che seicento colpi al minuto con incredibile sicurezza. S’avvicineranno a quattrocento metri; a men di quattrocento, se sarà possibile. Lanceranno il primo siluro; lanceranno il secondo. E nessuna gioia umana eguaglierà la loro, se potran vedere la mostruosa corazzata nemica inclinarsi in sul fianco, volgere al cielo le inutili bocche de’ suoi cannoni da cento, e rapidamente scomparire, con le sue torri e con le sue batterie, in un gorgo smisurato.
Sono anime d’acciaio integrate con l’acciaio dell’arma bellica in una guerra di uomini, macchine e materiali, in una visione che anticipa quella futurista.
Come si diceva, questo nuovo tipo umano è il risultato di una formazione, non di una disciplina consistente in ottusa applicazione di regolamenti. È comprensibile che in ambito militare non si possa prescindere dal rispetto delle regole e dall’obbedienza, ma questo è un ingrediente di un’azione formativa più complessa: se ci si limita al meccanismo trasgressione-punizione, in una struttura gerarchica poco intelligente succederà che chi occupa posizioni elevate tenderà a scaricare colpe o frustrazioni sul sottoposto e, in una «degenerazione», «chi ha ricevuta una umiliazione cerca, quasi per rappresaglia, d’infliggerla ad altri. E cosi la disciplina non è più fondata su l’inalzamento morale del più degno ma sull’abbassamento dell’altrui dignità». Diversamente, la disciplina dovrebbe essere fondata su saggezza, fermezza, ragionevolezza, e avere come scopo la conservazione della concordia nell’unità militare.
Questi temi saranno ampiamente sviluppati da D’Annunzio nei suoi successivi scritti di lotta e disobbedienza e determineranno la definizione delle due figure complementari del fante e dell’eroe: un fante contadino e proletario, scriverà D’Annunzio, che è anonimo non perché non sia persona, ma perché è un comune cittadino del Regno, nato non per frequentare una scuola di guerra bensì per essere appunto proletario e contadino. Eppure questo fante sarà determinante per la vittoria, così come lo stesso fante, quando capita di conoscerne il nome, sarà l’eroe che viene portato come esempio ai combattenti: il prototipo è, per D’Annunzio, Giovanni Randaccio, perfetto sconosciuto ai più, fante che cessa di essere anonimo solo perché lo si è avuto accanto nell’azione militare. Il milite ignoto, l’eroe proletario e contadino, l’ardito – forse il miglior corpo d’assalto della prima guerra mondiale – sono popolo, ovvero al tempo stesso persone e parti di un ente collettivo, un ente che cresce per cerchi concentrici: l’unità di combattimento, il battaglione, l’esercito… la nazione, che proprio nel finire del secolo XIX Enrico Corradini ripensa appunto come soggetto collettivo, depurandola da ogni tratto di retorica romantica e patriottismo funzionale agli interessi della classe borghese.
Il contributo di D’Annunzio al pensiero politico e alla visione del mondo contemporaneo è di straordinaria importanza e, per molti aspetti, di grandissima attualità – e non si trattò solo di un contributo teorico: D’Annunzio e i suoi legionari realizzarono a Fiume una rivoluzione socialista e libertaria per stroncare la quale furono necessari i cannoni della Marina di Giolitti e il voltafaccia di Mussolini, desideroso di eliminare il maggior ostacolo per la sua ascesa al potere.
G.F.