Socialismo e sovranismo, di Gianni Ferracuti
Conosco parecchie persone di destra che hanno ammirazione per Marco Rizzo, che è dichiaratamente comunista, soprattutto a ragione delle sue posizioni sulla sovranità nazionale; rimane però incomprensibile per loro come queste posizioni possano collimare con il comunismo. Probabilmente il problema nasce dal fatto che una persona di destra ha tendenzialmente una visione deformata del socialismo, vista la quantità di immondizia che viene ribattezzata con questo termine in Europa – per non dire dell’Italia. Così mi è venuto in mente di proporre una piccola sintesi o promemoria.
Il socialismo ritiene che la legittimità dell’agire politico venga dalla maggioranza e non, come avviene spesso a destra, da una legittimazione religiosa (di qualunque religione); non si tratta di laicismo, termine che ha a che vedere con il lessico religioso, ma di affermare una autonomia che l’agire e il potere politico hanno di per sé.
Questo carattere popolare della legittimità politica è inteso dal socialismo come un mandato imperativo a realizzare la maggiore giustizia sociale possibile nel presente storico, vale dire la migliore distribuzione dei costi e del benefici del vivere sociale e l’estensione all’intera comunità di condizioni di vita dignitose, secondo la sensibilità dell’epoca.
La definizione di un equilibrio sociale “giusto” si basa sul concetto di uguaglianza tra tutti i cittadini (io preferisco dire: tra tutte le persone) che compongono la società. Prima della rivoluzione francese vigeva in Europa il diritto diseguale, un sistema per cui lo stesso reto veniva punito diversamente se a commetterlo fosse stato un nobile o un villano e i diritti di cittadinanza non venivano riconosciuti a tutti nella stessa quantità. L’uguaglianza, dunque, si pone come “uguaglianza di fronte alla legge”, ovvero riconoscimento di un certo numero di diritti inalienabili che appartengono a tutti: per esempio il diritto a che il consorzio sociale garantisca la soddisfazione delle necessità elementari che consentono alla persona di conservarsi in vita e in salute. Dunque il programma socialista propone che tutte le persone abbiano cibo sufficiente, un alloggio adeguato, una tutela della salute, la possibilità dell’istruzione, un reddito da lavoro o da pensione…
Lo strumento principale per la realizzazione del socialismo è lo stato. Lo stato non è assente, come nel laissez-faire liberale, né è intermittente come nell’idea cattolica del principio di sussidiarietà, ma è lo strumento che la società costruisce o crea per svolgere le funzioni e i servizi di interesse collettivo: la salute pubblica, l’istruzione pubblica, i trasporti pubblici, la sicurezza interna e sul piano internazionale, il controllo della moneta e dell’equilibrio economico e di qualunque cosa abbia a che vedere con l’esistenza pubblica della persona; contemporaneamente, lo stato garantisce il rispetto della vita privata personale: in effetti, essendo una struttura che la società produce a proprio beneficio, lo stato socialista non deve muoversi in un’ottica totalitaria, ma impone dei limiti al potere pubblico.
Nella nostra cultura, probabilmente, la prima definizione di uno stato socialista si ha nella Repubblica di Platone, ma si tratta di un modello teorico che, come tutte le formulazioni ideali, è in realtà relativo ai desideri o alle illusioni di un’epoca, e nulla è più lontano dal socialismo di un modello unico e astratto, valido in ogni tempo e luogo. Più interessante è il quadro che Platone propone nelle Leggi, dove mostra il processo di formazione dello stato, come potere pubblico, a partire da preesistenti strutture sociali (famiglie, tribù, nuclei organizzati) che si confederano, conservando tuttavia una loro relativa autonomia all’interno dell’organismo complessivo da esse creato. Socialismo è primato della società sullo stato, e la società è articolata di suo in soggetti che contribuiscono alla nascita del nuovo organismo, senza annientarsi in esso.
All’interno del socialismo il criterio fondamentale per definire l’estensione del potere pubblico è il lavoro. Il lavoro è la più importante tra le attività umane che presuppongono una vita sociale organizzata: da qui la centralità della questione sociale e dell’organizzazione del lavoro. Contrariamente a ciò che si pensa, non è obbligatorio che il tema del lavoro sia affrontato attraverso la modalità della lotta di classe: questo, infatti, dipende dai rapporti tra le classi o, più in generale, tra i soggetti sociali. In un’economia molto articolata i conflitti sono molto diversificati e, di conseguenza, non è il concetto di classe a consentirne la comprensione e la gestione: il conflitto di interessi tra un artigiano e il suo apprendista non è di classe, bensì di funzione, ed è contemporaneo al conflitto tra lo stesso artigiano e un’azienda è più grande che gli fornisce un appalto – e anche in questo caso il conflitto non è di classe e può essere contemporaneo al conflitto, sul mercato, tra questa azienda e una multinazionale con sede all’estero. Il socialismo, dunque, deve possedere una concezione del lavoro adeguata alla realtà presente e una sua progettazione dello sviluppo futuro, sempre nell’ottica della giustizia sociale.
Quando la nostra costituzione afferma che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, con ogni evidenza non utilizza una nozione di lavoro marxista e nemmeno una definizione liberale. Se il lavoro è fondamento delle istituzioni pubbliche, nel loro carattere democratico, che coinvolge tutti i cittadini, evidentemente non si allude al lavoro salariato, ma a qualunque tipo di lavoro svolto all’interno della nazione, considerando lavoro l’attività dell’operaio, del contadino, dell’artigiano, del professionista, dell’imprenditore, del commerciante, di qualunque forma di attività – in tutti i casi declinata per genere, al maschile e al femminile, con l’aggiunta del lavoro domestico. Tutte queste attività garantiscono la vita nazionale e sono fondamento delle istituzioni democratiche. Pertanto il lavoro è la vita della nazione e il socialismo è garanzia della vita nazionale, nella sua produttività, nella sua ricchezza, nella sua tradizione culturale, che il sistema scolastico rende accessibile a tutti i cittadini, nel rispetto delle forme di vita collettive che la società produce spontaneamente nel libero esercizio dell’autonomia personale di ciascuno – il che attiene, ad esempio, alla libertà di culto, all’esercizio di attività artistiche, che lo stato dovrebbe tutelare ma non condizionare, o all’innovazione come al volontariato.
Il socialismo è sempre strettamente legato a una nazione, più ancora: è nazionale. Ma non è nazionalista, bensì inter-nazionalista, vale a dire solidale con ogni altro movimento che in altri paesi cerca di realizzare una politica socialista adeguata all’ambito nazionale in cui agisce. Da qui la conclusione che l’idea di socialismo è inseparabile dall’idea di sovranità nazionale. Invece l’idea di nazione è separabile dall’idea di socialismo, perché esistono paesi in cui un forte senso nazionale è fuso con una struttura economica capitalista e classista, a volte anche imperialista, come nel caso degli Stati Uniti.
Così, per tornare all’inizio, non stupisce che il socialismo di Marco Rizzo sia sovranista (anche perché una nazione o è sovrana o è colonizzata), ma non cessa di stupire l’ammirazione della destra per il sovranismo socialista di Rizzo – a meno che questa destra non sia inconsapevolmente erede di quel movimento rivoluzionario italiano che fu di Alceste de Ambris, del sindacalismo rivoluzionario, dei futuristi e di D’Annunzio, e che ebbe la sua migliore espressione nella Carta del Carnaro e nel fiumanesimo, al quale Mussolini volse le spalle abbandonandolo alle cannonate della Regia Marina Italiana e accordandosi con il re. In tal caso, però, non si capisce perché collocarsi a destra.