Un’idea di Socialismo e di Nazione, di Gianni Ferracuti
Gianni Ferracuti
Un’idea di Socialismo e di Nazione (2023)
Questo volume nasce dal recupero e dalla riscrittura quasi completa di un vecchio articolo intitolato Identità personale, identità culturale ed equivoco tradizionalista, pubblicato nel 1999 ma scritto qualche tempo prima, durante la guerra civile jugoslava, e da altri testi risalenti alla stessa epoca. Durante quel conflitto le manipolazioni della propaganda avevano raggiunto livelli tali da riportare la memoria alla seconda guerra mondiale, con crimini giustificati da ideologie razziste e pulizia etnica, deformando con malafede il senso dell’identità nazionale e delle tradizioni storiche. A mio parere, questa deriva razzista e criminale poggiava su una deformazione precedente e pericolosa, vale a dire la trasformazione dell’idea di tradizione in un’ideologia: il tradizionalismo, inteso come costruzione teorica assolutizzata in modo acritico e autoritario. L’opposizione fra tradizione e tradizionalismo è uno dei temi principali qui affrontati.
Anche oggi è in corso un conflitto di vaste proporzioni, che presenta aspetti di intolleranza verso culture altre, soprattutto là dove i sostenitori di un mondo monopolare, a guida unica occidentale, si presumono portatori e interpreti di una superiore idea di civiltà. Così mi è sembrato utile tornare a quel vecchio saggio e ampliarlo riproponendo temi forse inediti per i giovani che da molto tempo ormai vivono acriticamente immersi in un flusso di informazioni manipolante – false informazioni, in realtà, per costruire una narrazione che prescinde dalla ricerca critica del vero, ma coincide con gli interessi di poteri non sempre individuabili con chiarezza.
All’epoca della prima stesura, esattamente come oggi, le questioni relative alle tradizioni culturali, intese come fattore identitario, erano state pressoché abbandonate dalla cultura di sinistra, nonostante la grande lezione di Pasolini, ed erano gravemente fraintese (appunto in chiave nazionalista e di separatezza tra le diverse identità nazionali) anche dalla cultura di destra, nonostante il grande lavoro intellettuale svolto da autori come Julius Evola, in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Il lavoro di difesa e revisione delle culture tradizionali fu, ed è, compito di una minoranza di giovani intellettuali, situati, peraltro, nel quadro di una generale revisione della geografia politica dell’epoca, dopo le fratture ideologiche degli Anni Settanta e una stagione di violenze di piazza che, nella loro irragionevolezza, avevano fatto solo l’interesse di quel potere che si voleva criticare.
Fu un elemento favorevole anche il calo di tensione della guerra fredda, che di lì a poco si sarebbe esaurita, permettendo che venisse meno la necessità, per non dire la costrizione, di schierarsi con una parte o con l’altra, senza possibilità di incontri trasversali e, in definitiva, rimpicciolendosi in uno spazio ideologico troppo stretto per essere soddisfacente. Disgraziatamente, le nuove formazioni politiche, che hanno sostituito i vecchi partiti della prima repubblica, non si sono rivelate all’altezza delle necessità: in particolare le nuove sinistre, in realtà sedicenti tali, si sono precipitate, come i villani nel pranzo al buffet, sui piatti da portata approntati dalle nuove oligarchie finanziarie, osannando festevolmente un capitalismo internazionale più che mai aggressivo, moralmente apolide, ostile a ogni forma di interesse nazionale, a ogni questione sociale e, in generale, a ogni identità che fornisca sostegno e autonomia alla persona. Si preferisce piuttosto alimentare una fluidità informe e inondare lo spazio sociale di individui disorientati, deboli, ignoranti, facilmente manipolabili, che il capitalismo odierno sfrutta come masse umane usa e getta.
L’identità a cui qui si fa riferimento è sia personale sia collettiva. Per indicare quest’ultima è oggi comune l’uso di termini come etnia, o etnico, che sono del tutto fuorvianti: il vescovo di Bologna e io apparteniamo alla stessa etnia, ma non alla stessa cultura, quindi è discutibile che abbiamo la stessa identità; non tutti coloro che sono etnicamente arabi sono anche musulmani, e non tutti i musulmani sono arabi. Che un italiano si converta all’islam non rappresenta una sorta di tradimento della tradizione dei padri. La separazione dell’identità tradizionale e culturale dal sottofondo etnico è una conquista e un superamento del pregiudizio per cui, essendo nati casualmente in un certo luogo geografico, si avrebbe l’obbligo di identificarsi con il pensare collettivo di quel luogo.
In modo singolare, chi si è spinto maggiormente in avanti verso questa separazione «laica» di cultura ed etnia è stato un autore solitamente considerato razzista da chi non lo ha letto con attenzione, cioè Julius Evola. Ne Gli uomini e le rovine Evola afferma: «L’idea, soltanto l’idea, deve essere per costoro la vera patria. Non l’essere di una stessa terra, di una stessa lingua o di uno stesso sangue, ma l’essere della stessa idea deve essere per loro ciò che unisce e che divide». Questo lo conduce a porre la questione, inedita e modernissima, della «scelta delle tradizioni», che «implica la rinuncia alla infatuazione nazionalistica».
Un’interpretazione «laica» di Evola è mancata perché la cultura di sinistra si è trovata a disagio con le dottrine di un «fascista dichiarato» (in realtà, presunto tale), e la cultura di destra ha alimentato l’equivoco che realmente fosse tale, favorendone l’emarginazione. Se finalmente si facesse una rigorosa autopsia del fascismo italiano, si potrebbe discutere questo punto, trovando non poche sorprese.
Naturalmente, le scelte di singoli individui in dissenso con la cultura dominante non alterano, nel breve periodo, la vigenza sociale della cultura comune; perciò, se da un lato sono legittime, dall’altro lato non esonerano dal tener conto delle credenze collettive, altrettanto legittime e, inoltre, in grado di esercitare una maggiore pressione sociale. Né il singolo individuo può imporre il suo parere alla massa (secondo un reiterato errore progressista e illuminista), né la massa può solidificarsi al punto di non ammettere dissensi o innovazioni, critiche e contaminazioni intellettuali, secondo un inveterato errore tradizionalista o fondamentalista: né il progresso individualista, né la fine della storia, ma il progresso collettivo per selezione e accumulazione del nuovo e del vecchio è il ruolo della tradizione; la dinamica che articola conservazione e innovazione nella continuità è il processo storico che dà forma alle identità collettive e personali che vivono nella storia. […]